I Bellucci
A Melizzano è possibile ammirare un bellissimo Palazzo, edificato nel XVIII secolo.
È di stile tardo-barocco, con finestre in pietra lavorata e decorate con stemmi nobiliari, e si affaccia sulla Piazza principale del paese. Appartiene alla Famiglia Bellucci, antico e nobile casato che ha svolto un ruolo importantissimo nella storia del Comune sannita, avendo annoverato tra i suoi membri ecclesiastici e laici che nel corso degli ultimi 5 secoli hanno ricoperto cariche importanti. Così nella Cronotassi dei parroci della Parrocchia dei Santi Pietro e Paolo, realizzata dal compianto Preside Michele Riccio, troviamo un don Domenico Bellucci, che dal 1635 al 1679 regge la Comunità parrocchiale, affidata dal 1691 al 1743 ad un altro membro della medesima famiglia: don Pietro Paolo Bellucci, cui succede don Giuseppe Bellucci, parroco dal 1744 al 1750.
Da un diploma del 1793, deduciamo che un Vincenzo Bellucci, della Terra di Melizzano, il 25 maggio, ottiene dal Principe Francesco Cesarini Sforza il titolo di Conte Palatino.
Ma numerosi membri della famiglia Bellucci appaiono anche nell’elenco degli Amministratori del Comune di Melizzano in tutto il 1800 e il 1900. Sindaci del Comune sono: Giovanni Bellucci, dal 1811 al 1814; Sebastiano Bellucci, dal 1814 al 1816; Bernardo Bellucci, dal 1822 al 1824; Gaetano Bellucci, da1848 al 1853. Dopo l’unità d’Italia, troviamo sindaco di Melizzano Angelo Bellucci, dal 1867 al 1870 e dal 1876 al 1879. Sotto il Fascismo, diventa Podestà di Melizzano Vincenzo Bellucci, che regge il Comune dal 1925 al 1929 e dal 1929 al 1932.
Tra i membri della Famiglia distintisi nell’arte militare, troviamo Michele Bellucci (1826-1908), valoroso ufficiale dell’Esercito Borbonico. Era figlio del Colonnello di Cavalleria Francesco e fu allievo del Real Collegio militare dal 1839 al settembre 1848. Nominato alfiere al V Battaglione cacciatori, fu subito inviato in Sicilia e, alla presa di Catania e a quella di Taormina, si batté con grande valore ottenendo la medaglia d’oro della campagna e la croce di diritto di San Giorgio. Per il suo contegno ebbe, nel 1850, il passaggio allo stato maggiore, dove prestò servizio fino al 1861. Nel 1860 era capitano e partecipò ai combattimenti di Palermo. L’11 settembre 1860 fu promosso Maggiore e fu assegnato alla Brigata di Gaetano Barbalonga. Il 1 ottobre, nella battaglia del Volturno, fu tra i migliori ed ebbe la croce di S: Ferdinando, perché “con intrepidezza e molta cognizione militare condusse l’ala sinistra all’attacco di S. Angelo e nelle operazioni seguenti”. Partecipò poi all’assedio di Gaeta, come ufficiale dello stato maggiore e, rientrato a Napoli, dopo la resa si ritirò a vita privata. Lo troviamo altresì menzionato nel volume “Un Viaggio da Boccadifalco a Gaeta. Memorie della rivoluzione dal 1860 al 1861”, Napoli 1966, Arturo Berisio Editore, dove, a p. 420, è scritto: “ Lo stesso giorno 13 dicembre[1860] il Re mandò a Fergola diecimila ducati, ed altri ventimila il 16 dello stesso mese col benemerito maggiore dello Stato maggiore, Michele Bellucci”.
Oggi la famiglia Bellucci vive a Caserta e ascrive tra le sue fila illustri professionisti.
Il Barone Meoli del Torello
Il Barone Vincenzo Meoli del Torello poteva considerarsi, a cavallo tra fine ‘800 e inizio ‘900, il nobile più possidente di Melizzano.
Le sue proprietà comprendevano l’attuale Castello Caracciolo, il “castelletto del Torello”, e centinaia di ettari di terreno che davano lavoro ai numerosi braccianti del posto. Nonostante il Barone rappresentasse la maggiore espressione della classe dominante e più ricca di quei tempi, ciò non ha evitato che il suo amore per Melizzano e per i melizzanesi emergesse con estrema generosità.
Era il 18 dicembre 1908 e con una lettera scritta di proprio pugno all’ “Onorevole Consiglio di Melizzano-Dugenta” il barone Meoli si impegnava a donare al Comune un terreno con nobili sentimenti e precisi fini sociali:
“È noto a tutti l’affetto che il sottoscritto à sempre avuto per questo paesello, al quale lo legano tradizioni di famiglia, perché qua i suoi antenati esercitarono atti liberali, qui à egli trascorso non pochi anni della sua giovinezza, e di questo amato paese si sente cittadino [..]”.
“Per questo affetto, il sottoscritto sente il bisogno di concorrere al benefare del paese medesimo, perchè progredisca e ne garantisca, economicamente, quanto più è possibile, il lato igienico prima, e poi anche quello edilizio.”
La donazione del terreno in questione non era priva di vincoli: successivamente tale proprietà, previa lottizzazione, sarebbe dovuta essere ceduta alle famiglie bisognose munita di strade, illuminazione pubblica e spazio necessario per vivere una vita dignitosa.
Per tali motivi il feudo Starza il 22 marzo del 1909 passò, con deliberazione comunale firmata dal sindaco Isidoro Del Bene e dal segretario Cusani, dal Barone Meoli alla comunità melizzanese.
Le condizioni del Barone Meoli erano, però, spiegate con estrema cura:
1. che vi si costruisca la via che metta in comunicazione la via Traversa del Sannio con la via Starzella (ndr. l’attuale traversa Starzella).
2. che appena il Rione sarà popolato di case, in proporzione di un terzo sul totale dei suoli edificatori, il Comune estenda la pubblica illuminazione anche nella detta via, con tre lumi da sistemarsi nel modo migliore.
3. che alla via medesima si dia il titolo di Corso Teresa di Somma (ndr. moglie del barone Meoli), come colei che ebbe prima la geniale ispirazione dell’opera, e che, in qualità di consorte, convinse il sottoscritto a tale sollecita esecuzione.
4. che la piazza abbia il nome “piazza Giovambattista Meoli“ (ndr. padre del barone Meoli), in memoria di chi educò il figliulo sottoscritto all’affetto per questa piccola parte del Sannio, e del quale a Melizzano, non è chi non ricordi le esemplari virtù e la liberalità.
5. che non appena nel novello Rione Starza saranno sorte delle fabbriche da occupare il terzo dei suoli edificatori, il Comune faccia sorgere nella piazza un fontanino con un volume sufficiente per due getti, appunto per i bisogni degli abitanti del Rione.
Le intenzioni del nobile erano chiare, ma il suo sogno è rimasto solo sulla carta, nella sua mente.
Nel luogo dove piazza Giovambattista Meoli doveva sorgere, ora c’è un ufficio postale. Invece del Corso Teresa di Somma, c’è solo una strada secondaria, nessuna fontana e l’illuminazione pubblica è arrivata solo di recente.
Però c’è una cosa che il Barone Meoli del Torello ha lasciato e che non è stato possibile modificare o cancellare: da parte dei più anziani quella strada, Traversa starzella, continua ad essere chiamata “abbasc i meoli”, in memoria di un progetto e di un barone amato dal popolo e ingannato dalla amministrazione comunale del tempo.
Il Conte Carlo Procaccini
Carlo Procaccini, conte palatino e marchese di Montescaglioso, nasce a Napoli il 3 febbraio 1897, dal Conte Ernesto e da Donna Carmela Crocco Egineta, nella di Lei casa avita detta “Villa Santobono”. Sin dall’infanzia egli condivide con il padre la passione per le loro proprietà di Melizzano, costituite dal Palazzo di famiglia, dalla Masseria, dalla Chiesa di S. Maria delle Grazie e da 25 ettari di terreno distribuito sul territorio comunale ereditate dalla Famiglia Bellucci, Conti di Ciolla. Al termine della seconda guerra mondiale, egli avvia una proficua attività di allevamento bovino ed agricola, comprendente vigne ed uliveti, piantagioni di albicocche, di mele “starking” e di loti. Nel 1935 il Conte Carlo sposa Donna Giovanna Jervolino, dalla quale il 2 marzo 1936 nacque Ernesto che, nel 1964, sposa a Napoli Donna Caterina Azzariti Fumaroli, dalla cui unione nascono Carlo, Francesco e Giovanna. Il conte Carlo Procaccini muore a Napoli il 30 giugno 1974.
Il figlio Ernesto, detto il “Contino” da giovane segue il padre nell’azienda agricola di famiglia, da adulto diviene avvocato del Comune di Melizzano e difensore di parecchi concittadini melizzanesi. Ma la professione, praticata alacremente presso il Foro di Napoli, lo porta lontano dalle sue radici. L’allontanamento dal paese della famiglia Procaccini si consuma verso la fine degli anni Settanta, quando, dopo la morte del Conte Carlo, con l’aggravarsi delle condizioni di salute della Contessa Giovanna, che le rendono più difficoltosi gli spostamenti dalla città, Ernesto tende a recarsi sempre più di rado nelle sue proprietà melizzanesi. Ma il legame con Melizzano e la sua terra si mantiene vivo nel suo cuore, in particolare attraverso la cappella della Madonna delle Grazie in cui alcuni affreschi rappresentano, secondo la tradizione, il motivo per cui fu edificata l’edificio sacro nel luogo detto “Vallone”: la Madonna che “grazia” un gruppo di persone dopo che il loro carro si era rovesciato in un burrone. (Cfr. G. Procaccini, Carlo Procaccini, in MOIFA’ 47, Gennaio 2007, p.20)
Il Duca Lucio Caracciolo D’Aquara
Nasce a Lucera il 30 maggio 1898, secondogenito del duca Vincenzo e dalla duchessa Ottavia Spinelli.
Dopo gli studi umanistici, si laurea prima in Giurisprudenza e poi in Lettere e in Scienze Politiche. Giovanissimo si trasferisce a Roma, dove inizia la carriera giornalistica. A soli 27 anni viene chiamato a Rovigo a dirigere il Corriere del Polesine, ricevendo numerosi encomi come più giovane direttore di testata. E’ inviato di vari giornali in Egitto, America Latina, Cuba e Russia, dove viene arrestato e tenuto a lungo prigioniero. Al rientro scrive l’Isola Rossa e successivamente pubblica numerosi altri libri. A Roma frequenta il fior fiore del mondo della cultura e dell’industria.
Nel 1934 sposa Beatrice Piromallo Capece e viene adottato dallo zio Barone Vincenzo Meoli di Melizzano. Alla morte dello zio eredita il Castello di Melizzano, dove Pirandello scrisse numerosi racconti ed Eduardo De Filippo ambientò una delle sue commedie di maggiore successo “De pretore Vincenzo”.
Melizzano che il giovane Lucio conobbe tardi e che in principio parve un esilio, rivestì un ruolo di primaria importanza nella sua vita: fu lì che volle nascessero i suoi tre figli e lì, tra un viaggio e l’altro, amava ritirarsi a scrivere e a meditare e ad ospitare i suoi amici.Anche se della politica non ebbe un buon concetto, per un periodo rivestì anche al carica di podestà di Melizzano. Tra le sue passioni vi furono, oltre allo scrivere, le lingue (ne parlava sette) la musica, il cinema. Per circa vent’anni continuò a scrivere per IL MATTINO e per IL ROMA, collaborando altresì con svariati settimanali. Morì a Roma il 26 febbraio 1963, in seguito ad una banale operazione chirurgica.
(Cfr. Dizionario Biografico delle Terre dei Gambacorta, a cura di A. Gisondi. V. Di Cerbo e G. Aragosta, Ed. Il Chiostro, Benevento 2006, pp. 37-40)
Padre Andrea Mezza
Bella figura di Missionario Oblato di Maria Immacolata, nasce il 26 giugno 1922 a Melizzano, in via Starza, 20, da Giovanni e Giovannina Mercone, primo di quattro figli. A 10 anni un grande dolore viene ad abbattersi sulla sua piccola vita per la morte della mamma. Il padre si risposerà e avrà altri quattro figli. Terminate le scuole elementari in paese e sentendo il desiderio di diventare sacerdote, entra nel Seminario Vescovile di Cerreto Sannita, per proseguire poi gli studi in quello Arcivescovile di Benevento. Ma, sentendo che il Signore lo voleva Missionario, partì per San Giorgio Canavese (TO), dove entrò tra gli Oblati di Maria Immacolata e, completati gli studi teologici, nel 1945 divenne Sacerdote.
Il 14 luglio 1945 celebrò la prima Messa solenne a Melizzano, nella Parrocchia dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, circondato dall’affetto dei familiari e dei suoi compaesani.
Nel novembre 1946 parte per la Missione nel Nord-Ovest del Canada, nell’allora Vicariato Apostolico del Mackenzie, un milione di Kmq, dove vivono circa 30.000 abitanti tra indi pellirosse, esquimesi, meticci e bianchi. Di questi 16.100 sono cattolici, assistiti spiritualmente da una cinquantina di Missionari, una trentina di fratelli coadiutori e un centinaio di Suore e distribuiti in una cinquantina di Missioni. Dopo i primi contatti con la nuova realtà, i Superiori lo destinano a Chippewyan-Prairies, nel Nord della Regione dell’Alberta, tra i Montagnesi, una tribù di gente buona, amante di pace e tranquillità, dedita alla caccia e alla pesca, dove arriva il 29 gennaio 1947, dopo 80 ore di viaggio in slitta, ultima parte di un itinerario che, da quando era partito dall’Italia, era durato complessivamente, anche se con qualche intervallo 32 ore di aereo, 72 di treno e 80 di slitta.
Inizialmente, vive in missione con un altro confratello e con grande zelo e spirito di sacrificio, per ambientarsi, supera tante difficoltà, soprattutto il freddo polare che avvolge la zona per 9 mesi all’anno (con terribili mesi estivi funestati dalle zanzare) e che raggiunge normalmente la temperatura di -60°, e soprattutto l’apprendimento della difficilissima lingua dei Montagnesi. Scrive in una sua lettera: “La difficoltà della lingua è la prima ed è cero una delle più grandi che il missionario incontra all’inizio del suo apostolato: lingue e dialetti troppe volte assolutamente diversi da quelli parlati fino al giorno della partenza, indigeni che si divertono (benché senza cattiveria), sottolineando con le più grandi risate gli sforzi che egli compie nel vano tentativo di farsi capire”. Racconta così che dopo mesi e mesi di impegno di studio che spesso gli procura l’emicrania, finalmente, anche lui si sentì dire un giorno in lingua montagnese: “Tu parli come un indiano, proprio così”. Svolge per 7 anni il suo apostolato missionario tra gente buona e piena di fede che lo chiama “il pregante”, adattandosi alla loro mentalità per annunciare Cristo ed essere per loro un segno concreto dell’amore di Dio.
Nel 1953, a motivo di gravi problemi agli occhi, causati dalla luce abbagliante prodotta dal sole sulla neve, con una grandissima nostalgia nel cuore, deve tornare in Italia. Rimane in famiglia per 4 anni a Melizzano, dove aiuta il parroco e all’occorrenza sostituisce anche don Igino Romano, Parroco di san Nicola ad Orcoli, in Dugenta.
Nel 1957, i Superiori gli affidano l’incarico di insegnante degli aspiranti missionari Oblati nella Casa di formazione di Frascati, dove rimarrà per circa 10 anni.
Durante una visita a suo padre a Melizzano, nel 1966, mentre attende in Piazza IV Novembre il pullman per recarsi a Dugenta, dove vive una sorella, è colpito da un ictus cerebrale. Ricoverato all’Ospedale di Marcianise, fu operato alla testa. Guarì, ma rimase inabile al punto da non poter celebrare la Santa Messa e non poter più insegnare. Dopo una lunga convalescenza, ritornato quasi alla normalità, poté riprendere la celebrazione dell’Eucaristia e, negli anni 1973, 1976, 1981 e 1986, compiere alcuni viaggi negli Stati Uniti d’America, dove risiedevano un fratello e una sorella. Ma con il passar del tempo le sue condizioni di salute ne consigliarono il ricovero nella Casa di riposo per Sacerdoti “San Gaetano”, in Via Vergerio, a Roma, dove morì improvvisamente il 25 aprile 1993. E’ sepolto nel cimitero di Melizzano, suo paese natale, dove per iniziativa del Parroco, don Michele Della Valle, gli è stato recentemente intitolato il nuovo salone parrocchiale.
Pagina aggiornata il 27/06/2024